La Fotografia

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PHLEGRAIA, terra ardente, 2013 , 

Edizioni scientifiche ed artistiche

il giudizio di Lamberto Lambertini

“Tutto immagini e brevi titoli.

il raffronto (fronte e fronte) provoca come una gioia dolorosa.., prende senso, e pagina dopo pagina, emoziona.

Ritratti come emanazioni fantasmatiche. Associazioni semplici, casuali, o volutamente associative. Ne deriva un effetto ipnotico che sorpassa ogni possibile giudizio, almeno per noi napoletani.

La forza di un lavoro, di un gesto, di un evento…, che accettiamo nella sua radiosa semplicità. Per questo vieni catturato dagli sguardi persi, poco ammiccanti, dei personaggi, famosi o no, amici e non. Abitanti di questa città nel loro affettuoso svanire…o nel restare immutabilmente se stessi, per sempre.

Siamo nel campo selvatico, frammentario, incompiuto, della poesia”.

Lamberto Lambertini

 

Articolo su “Il Mattino” – “La «Terra Ardente» si mostra negli scatti della De Rienzo” – 13 novembre 2013

Roberta Cacace – “Napoli, New York, Procida e le cupole” – Sabato 21 Settembre 2013

Giovanni Russo – “La Lettura”, inserto culturale del Corriere della Sera – Domenica 5 maggio 2013

Fabrizio Pirozzi: ” L’Espresso Napoletano”, I volti di Partenope, 4 aprile 2013

Recensione di Claudio d’Aquino: Il Denaro, sabato 4 maggio 2013

Recensione Piero Antonio Toma, su La Repubblica, sabato 20 aprile 2013

Recensione di Stefano De Stefano, uscita su IL Mattino del 16 marzo 2013 (PDF)

Recensione di Francesco de Core, uscita su IL Mattino, 15 marzo 2013 (PDF)

Intervento di Salvatore Scialò su PHLEGRAIA (PDF)

 

 

IL MARE IN FACCIA, galleria di ritratti procidani, 2004, pagg. 101, € 18,00

Editore Intra Moenia

Prefazione di Romolo Runcini, sociologo della letteratura

La rappresentazione del reale – un paesaggio, un evento, una persona – può darsi quale testimonianza mimetica di ciò che appare, ovvero quale sonda interiore di ciò che è nel suo complesso: può essere documento o narrazione. Da una parte avremo la registrazione statica, catastale dell’oggetto in presenza, l’informazione; dall’altra la visione dinamica del suo accadere nel vissuto quotidiano, il valore. Valore è, in campo artistico e letterario, espressione della creatività, un segno autentico dell’avventura estetica.

Ora questa raffigurazione di vite e di luoghi dell’ isola di Procida, realizzata con mezzo fotografico da una scrittrice sensibile e incisiva come Giuseppina De Rienzo, può considerarsi senza dubbio il tentativo di guardare il mondo con strumenti diversi dalle parole. E’ la prova di un rischio, quello di mettersi in gioco tra informazione e valore. La tessitura narrativa di un tale percorso iconografico, inteso come quadro d’assieme, è offerta all’impronta nella prospettiva letteraria impostata sulla scenografia paesaggistica e umana del celebre romanzo di Elsa Morante, L’isola di Arturo.

In tal modo la “ricerca di Arturo” costituisce la motivazione di base dell’impresa, è l’asse portante di una modellazione formale di tipi e figure dell’isola procidana corrispondenti ai vari personaggi e luoghi descritti nel testo morantiano. Si va dal giovane protagonista, Arturo, alla amabile matrigna Nunziatina, dal fratellastro Carminiello, a Fortunata la mammana, a Immacolatella la cagna. Ma poi c’è il padre, Wilhem Gerace, un italo – tedesco misterioso e inquietante, sempre in fuga dalla società, dagli affetti, da sé stesso; un padre che Arturo adora come un dio per la sua inafferrabilità.

Questi personaggi – che rappresentano in raggruppamenti seriali la genealogia morantiana di modelli umani dell’isola – potevano fermarsi, nel nuovo panorama fotografico, a far parte di una galleria di ritratti in un palcoscenico già delineato. Ma i procidani, liberamente fotografati dalla De Rienzo non sono tipi da fissarsi con gli spilli, subordinabili alla parabola narrativa della Morante. Una volta scelti come individui che il mare isola e affida in un ristretto spazio vitale, essi esprimono la gioia e la sofferenza, l’orgoglio e la rassegnazione, la voglia di apparire e la difficoltà di essere nel breve territorio che li ospita: sono reazioni naturali soggette alla fascinazione e al blocco di una finitudine umana vissuta di fronte al prevalere fisico ( e storico) dell’universo marino.

Ora, il titolo stesso di questa rassegna fotografica, “Il mare in faccia”, vuole esprimere appunto il senso del limite che l’isola manifesta e impone nella sua segreta identità di terra emersa dalle acque. Così, la “ricerca di Arturo”, avviata come verifica iconica del personaggi e dei luoghi morantiani, si trasforma in un nuovo racconto delle condizioni esistenziali e dello stato ambientale della Procida odierna.

Questa traccia narrativa personale sa mettere in rilievo il degrado e la bellezza dei muri corrosi dalla salsedine, i volti rugosi e sapienti dei vecchi o dolci e curiosi dei giovani, gli angusti carrugi del centro storico, le pesanti matasse di reti da pesca e l’arte di cucirne gli strappi, gli interni di scale e passaggi affogati nel buio ancestrale di spazi esigui ricavati dalla scarsa disponibilità del suolo, i severi palazzi signorili e l’allegro splendido anfiteatro del villaggio dei pescatori. Un tale itinerario iconografico mostra con intelligenza e passione del punto di vista il disegno scenografico dell’isola la struttura modulare dell’antica urbanistica saracena, e l’invenzione tipicamente procidana di una architettura popolare che imita, quando vuole, quella alta dei signori, ma sa anche opporle modelli alternativi, evidenti nei grandi casali aperti come all’interno delle case, evocati dall’immagine delle vele nelle arcate frontali degli edifici o dell’onda, avancorpo murario delle scale di accesso alle abitazioni. Questa prospettiva fotografica di Procida risulta dunque, sulla scia di un ripasso letterario, una struttura narrativa autonoma, un romanzo per immagini capace di seguire avventure esistenziali e ambientali vissute nell’universo misterioso e limitato dell’isola.

Recensioni

Francesco De Core – Il Mattino – 21 08 2004

Stefano De Stefano – Corriere del Mezzogiorno – 06 08 2004

Davide Morganti – La Repubblica – 21 08 2004

Francesco De Core

De Rienzo, l’isola di Arturo e il mare sulla pelle

SAREBBERO piaciuti a Pasolini questi volti procidani, piantati in un vissuto antico eppure così fascinosi, che Giuseppina De Rienzo ha messo uno dopo l’altro nel volume Il mare in faccia che solo in apparenza è esclusivamente fotografico. Un lavoro profondo, che sa d’indagine e intuizione, occhio e mano insieme; un modo anche un po’ insolito per completare un lavoro che la De Rienzo ha iniziato scrivendo storie -intricate e dense, come quelle che danno respiro all’ultimo libro, La scirocca, pubblicato da Graus.

Nel cercare requie, l’autrice prende congedo dalla terraferma (e la sua, di terra, era già stata quella dell’osso irpino di Passo d’ombre, isola increspata circondata da piani) e si inchioda a Procida, alle sue asperità pure caratteriali, al mare pieno, ai tagli dei visi, al sale e ai bianchi delle casupole, alle stradine che non si sa dove ti portano, eppure ti fanno sempre scoprire qualcosa che non avevi visto. La De Rienzo ci sta dentro, Procida. Che non è soltanto un luogo dell’anima, ma il ritrovo, il rifugio, dove senso d’appartenenza e affinità elettive si assommano nei riti del quotidiano (tanto che lei, pur napoletana, tiene ad avere identità procidana di carta).

A tanto porta la sensibilità che la De Rienzo ha coltivato col tempo, una di loro, una come loro: il bianco e nero scelto con cura, l’osservazione inghiottita da una digitale che pare un taccuino sempre più fitto di umori intensi, pronta a cogliere, talvolta persino a strappare lo sguardo che fugge. Perché poi Procida è così, non si fa acchiappare facilmente, e quando si dona non mette belletti, non ha ansie mondane, fugge dalla luce riflessa. La traccia narrativa dell’Isola di Arturo di Elsa Morante – che fa da contrappunto diaristico al succedersi delle immagini, didascalie che segnano un percorso – diventa realtà «negli angusti carrugi del centro storico, nelle pesanti matasse di reti da pesca, nei passaggi affogati nel buio ancestrale di spazi esigui», come spiega Romolo Runcini, studioso del fantastico che tiene Procida saldamente nei piedi e nel cuore. Pare quasi che i muri dell’isola abbiano struttura simile alle facce, così elementari, così solide: succhiano sole e libertà. Molti sono vecchi pescatori, mogli o vedove di vecchi pescatori; i giovani hanno sguardi accesi, ma sembrano prodotti da una malinconia che respinge, senza malizia, l’imbarbarimento di certa ottusa modernità. Lontana da ogni deriva oleografica, la De Rienzo decifra dai volti il tempo che cammina lento sull’isola.

Otto i capitoli, otto tappe di Procida: arturo, artù, nunziatine, carminielli, vilèlm, madonne, saraceni, dentrofuori. Che sono poi i segmenti riportati in mostra, nell’antica chiesa di San Giacomo ( fino al 30 settembre).Non un semplice omaggio, neppure un semplice studio.

O forse tutto questo insieme, con passione e senso artistico. Dentro Procida, per Procida.

(Il Mattino, 21/08/04)

Stefano De Stefano

Un luogo remoto, ancestrale, arcaico come le superfici dei suoi muri e le cadenze cantilenate del suo idioma. Un luogo circondato dal mare e perciò esso stesso isola, microcosmo di civiltà e memorie senza tempo, perse tra il racconto orale passato di generazione in generazione e la fantasia di un mito senza autori. E’ Procida, l’isola più piccola del golfo partenopeo e quella più vicina alla costa. Eppure quella che con più circospetta ritrosia ha mantenuto gelosamente per secoli le testimonianze della sua identità. Se pensiamo che sino alla fine degli anni ‘60, ancora sulla via Giovanni da Procida era possibile incrociare gli asinelli cavalcati di lato dai contadini con le loro sporte di pomodori e fagiolini. O ritrovare nelle corti delle vecchie case rurali le sbarre in legno dei pozzi trainate dagli stessi quadrupedi incappucciati. Questa Procida, che oggi faticosamente si confronta con la modernità, con il rombare incessante dei motorini o con i telai in anodizzato color bronzo apposti alle finestre di ‘600 e ‘700 per impedirne gli spifferi, è l’isola che una sua recente ma innamoratissima abitante racconta con una mostra che sarà inaugurata il 12 agosto ed un libro di fotografie edito da Intra Moenia, suggestivo e accattivante. E di vero e proprio racconto si tratta. «Il mare in faccia», questo il titolo brusco e sufficientemente metaforico, è infatti il lavoro di una scrittrice, Giuseppina De Rienzo, che per una volta posata la penna sul tavolo e staccata la spina del computer, ha scelto di parlare attraverso le immagini, quelle scattate in due anni di peregrinazioni procidane con una piccola macchina digitale. E nel suo indice si accavallano volti e luoghi dell’isola, catturati su per le stradine del Centro Storico, che si inerpica partendo dalla Marina Grande salendo per San Leonardo, fin sulla Piazza dei Martiri e la Terra Murata, luoghi che si affacciano sull’altro versante quello della Corricella, l’antico borgo dei pescatori. «Il titolo stesso di questa rassegna fotografica – scrive Romolo Runcini nella prefazione – ”Il mare in faccia”, vuole esprimere appunto il senso del limite che l’isola manifesta e impone nella sua segreta identità di terra emersa dalle acque».

«Sono scivolata dalla scrittura alla fotografia – racconta invece l’autrice – in modo molto naturale. La foto è in fondo una narrazione, una vera e propria estensione della scrittura. Cartier-Bresson, appena scomparso, usava dire che la scrittura è meditazione e la fotografia è attimo. Ed è vero, ma partendo da uno stesso procedimento. In fondo alle spalle c’è sempre un’emozione. Quella coltivata più a lungo, coccolata quasi fra il momento della percezione e la sua traduzione nero su bianco. La foto è invece un passaggio diretto. Vedi un qualcosa, ti colpisce e scatti. Sperando che il risultato sappia restituirti quel momento con tutta la sua intensità». E di momenti così la De Rienzo ne vive a decine a Procida, ogni giorno, da otto anni, da quando cioè decise che la sua dimora principale dovesse spostarsi dalla terra ferma all’isola. «Da quando ho scoperto il valore della fotografia – continua la scrittrice -, cammino con la macchina in tasca, e appena si presenta l’occasione la tiro fuori e appunto l’immagine. E’ come avere un block notes sempre con me. Anzi da quando faccio così, quelle rare volte che dimentico la macchina a casa, finisco sempre col pentirmene».

Ma la fotografia non sostituirà mai la sua prima vocazione. «Sono due momenti diversi, per velocità di elaborazione, ma non potrei mai rinunciare alla scrittura, al sapore di una frase, all’intensità di una descrizione fatta attraverso le parole».

Il corpus della mostra, che sarà allestita nell’antica chiesa di San Giacomo, non più utilizzata per il culto, è segnato quindi da una curiosità, che oscilla fra l’antropologia e l’architettura, la sociologia e la storia, sempre però filtrando tutte le immagini attraverso una lente poetica, quella che la De Rienzo mostra di utilizzare però anche con sapienza tecnica. «Non ho modelli particolari, né specifici riferimenti tecnici. Posso dire solo che tutto è iniziato un po’ per caso con una macchina digitale. Tutte le foto sono quindi a colori, perché mi interessava un’esposizione fedele anche cromaticamente al suo contenuto. Nel libro invece ho decisamente scelto il bianco e nero».

Scelta giustissima a vedere il risultato. Ad una prima e rapida scorsa, infatti, le immagini sembrano partorite da una classica reflex, tale è la nitidezza dei contorni, e soprattutto la plasticità delle forme generate dal forte contrasto chiaroscurale adottato dall’autrice. E sarà quindi fonte di ulteriore curiosità rivedere quei volti, il ragazzo col pappagallo ed il bambino col sax, la generosa madre che mostra il suo paffuto pargolo ed il vecchio pescatore con la bandana, restituiti in una dimensione policroma.

«Il rapporto con la gente – spiega la De Rienzo -, con questa gente che accompagna il lettore lungo il mio viaggio procidano, è stato straordinario. Prima di scattare ho sempre chiesto se la persona in causa fosse o meno un isolano doc. Questa cosa li ha incuriositi e inorgogliti allo stesso tempo. E sicuramente ha favorito il mio lavoro. Ho ricevuto solo due rifiuti, ed uno in particolare da parte di una signora che si riteneva troppo brutta per essere immortalata in una pubblicazione. Per il resto anzi è stato curioso vedere come in tanti cominciassero a gironzolarmi intorno, quasi desiderosi di entrare a far parte di questo particolare catalogo, al punto da interrogarsi con lo sguardo sul ritardo di un mio eventuale approccio». Il volume raggruppa e suddivide questo itinerario per voci, quasi dei capitoli ispirati alle pagine de «L’isola di Arturo». La prima è «Arturo», e raggruppa volti di vecchi, possibili coetanei del protagonista del libro della Morante, che oggi avrebbe circa ottant’anni. Segue «Artù» ovvero il richiamo del giovane, e mostra appunto facce di ventenni e trentenni. Ci sono poi le «Nunziatine», le donne dell’isola, le seducenti ragazze e le anziane signore, e ancora i «Carminielli», metafora dei bambini procidani. «Vilèlm» è invece l’uomo robusto e abbronzato, mentre le «Madonne» sono donne e madri, ingioiellate o avvolte nei tomboli isolani. Immancabili i «Saraceni», quegli uomini cioè che la De Rienzo ha voluto raggruppare per intensità di sguardo e ghigno moresco, prima di concludere con «Dentrofuori». E’ questo l’altro forte interesse che emerge dall’opera, quello per i luoghi. Per la scabra superfice dei muri isolani, ad esempio, che si lega ai volti, a quelle rughe profonde che solcano i volti dei vecchi come le ferite che si aprono sull’intonaco screpolato dal sole. O ancora l’interno di una canonica e il randagio che esce dal ponte di un traghetto appena sbarcato. Infine la barca, tirata a secco e sistemata davanti alla porta di casa come un’automobile. «Il mare è il grande tema della mostra – conclude la De Rienzo – è il luogo metaforico e materiale dell’odio-amore di ogni procidano. E’ l’elemento a cui ha da sempre affidato le proprie sorti, le proprie fortune. Sia che si trattasse di pesca che di viaggi di lungo corso. Ma è anche la causa di morti e tragedie, di attese disperate e di imbarcazioni senza ritorno. Ancora oggi ci sono donne anziane che stendono i panni guardando in basso, quasi sfuggendo a questa vista azzurra: «Oggi il mare è increspato – mi dice qualcuna -, meglio non partire per Napoli».

(Corriere del Mezzogiorno, 6/8/2004)

Davide Morganti

I volti di Procida e le rughe dei muri

Le foto della De Rienzo ritraggono i volti procidani come angoli di muro, e gli angoli di muro come volti; il mare appare soltanto nelle ultimissime foto, approdo al contrario, utero scrostato, somma delle attese di chi circonda. Le reti che raccolgono la stazza di due pescatori seduti somigliano ad alghe di mare. Le pareti dei muri hanno rughe, invecchiate dalla solitudine e dalla salsedine; c’è una suggestiva foto che racchiude il reciproco ricercarsi: una corda e una rete che da un interno si prolungano fuori, verso l’esterno. E’ Procida ad aver catturato il mare, o viceversa? Forse entrambi. I volti, le pietre, i santi, gli angiporti sono la coagulazione del mare. Le foto, come onde, ora scure ora liquide, diventano capitoli di una storia. Adoperando un b/n polveroso la scrittrice restituisce la parte più asciutta dell’isola.

(La Repubblica – 21 08 2004)