Raccolte di Poesie

 

“ERI TU IL CAVALLO”, raccolta poesie,
1996 pagg. 64 (non disponibile)Amadeus EditorePremio speciale Procida, Isola di Arturo,” I luoghi di Elsa Morante”

Prefazione di Renato Minore

I versi di Giuseppina De Rienzo precipitano in una continua frantumazione, alla ricerca di un centro che non esiste, non può esistere…Il loro movimento garantisce e preserva. Sembra che con una lente, fissando lo spazio le immagini tendono a condensarsi, si provochi uno speciale effetto ottico che le dissemina. La scansione è attonita, molecolare. Il racconto si sfalda in particole di senso. Particole di vissuto e di mito, di racconto e di memoria. Qui il vissuto che si racconta è insieme memoria e mito. Ed è il senso di una identità di donna e di madre ferita ma ansiosa di ricaricarsi, di non perdere il filo della comunicazione affidata a un “tu” evocato. Le spine sentimentali ed erotiche, il patimento d’ogni tipo, un universo conosciuto di paesaggi e evocazioni come quello che appare soprattutto nella sezione “Phlegra”: la De Rienzo tende ad esporre una materia posseduta per farne oggetto di rappresentazione, di “visione”. La precipitazione dei versi -cui ho fatto cenno- è come il gesto di un pittore che, stabilito il campo della “rappresentazione”, ne dissemina la “visione” secondo una strategia compositiva.

La scrittura puntilliforme è appunto un fatto strategico: solo così, con l’iterazione degli a capo, la De Rienzo riesce a delineare le forze in gioco nella sua poesia, a possederle ed esserne posseduta, secondo un procedimento che le appartiene e la distingue. Il lettore è dentro questo flusso, coglie una tensione di vita e di affetti, un modo segmentale di riagganciare le parole ai sentimenti.

Una linea espressiva nuda, netta, ossessiva, rintracciabile nella calcolata dispersione delle parole sul filo lievissimo che le frulla e le fulmina, appollaiate sopra il verso.

 

Baiae

fuori dal tempo

il serpente meccanico

ancora aspetta

pieno di breccia

gli antichi velieri

dietro la luce abbagliante

Recensioni:

Nando Vitali

Le immagini di questa raccolta poetica di Giuseppina De Rienzo (Eri tu il cavallo, edizioni Amadeus, pagg.58, lire 10.000) sembrano sorgere come in un risveglio dolente, una ipnosi e una precedente svagatezza.
Poi, prendono corpo, fino ad assestarsi nel giusto cromatismo di un realismo simbolico, che sgorga da un mondo intriso di carnale animalità, di sguardi a strapiombo nell’animo umano – un animo di femmina, per la precisione – nel proprio io più remoto, nel quale riconoscersi può essere quasi un miracolo. Ma anche un tentativo per liberarsi dal peso della morte.
“Il colombo che fino a ieri imbrattava il tavolo/ resta/ supino/ zampe/ in alto/ il corpo gonfio le piume strette/ un riposo strano, più che un segnale/ di morte fisica/ il segno/ di una prigione/ eppure il terrazzo è ampio/ la luce forte e le reti/ ai bordi/ larghe…/ il piccione moriva / la seconda volta”, si legge in Eri tu il cavallo. Ho la sensazione che questo morire una seconda volta sia come morire a se stessi, oltre che al mondo. Dopo il primo tentativo di volo, frenato sulla pista, in apparenza larga, ma in realtà, non abbastanza lunga affinché il gesto meccanico delle ali si tramuti in effettiva leggerezza.
E’ chiaro il calco baudelairiano. Giuseppina De Rienzo indugia sul tasto dell’amarezza ribelle schiacciato con una pazienza, apparentemente senza ritorno. L’amore carnale e terragno, geologico e fatale, intriso di sughi e di sogni, è un umore di seppia.
Anche quando è forte il richiamo ai propri luoghi, alla terra – nella parte centrale del libro ispirato all’area flegrea – tutto rimanda a lapilli e bradisismi dell’anima.
E’ una tracimazione in paesaggi sospesi, come di città ben oltre la memoria, oltre il tempo, perdute e mai ritrovate. Luoghi senza luogo.
I versi, così, paiono staccarsi essi stessi, simili a intonaci marciti di un edificio, dai fianchi stanchi di una Pozzuoli fatiscente e spettrale.
Pozzuoli, appunto. “Puteoli: Sbarre/ proprio sulla luce/ del mare/ la chiesa/ dipinta/ vicino al castigo/ ripete/ il godimento/ alle celle…”, continua la De Rienzo.
E’ il castigo dei poeti. Restare attoniti di fronte al disfarsi delle illusioni. Ma forse anche la loro forza per non lasciarsi disarcionare dal destino.

(Nando Vitali, Il Mattino, 6 novembre 1996)

  “LAGGIU’ LA STREGONIA”, raccolta poesie,  2005, pagg. 101,  €10,00

Manni Editore

Quarta di “Laggiù la stregònia”

Il tono battente e sillabico con cui viene raccontato un mondo di affetti e di figure è un modulo che trova la sua giustificazione, il suo imprinting, una linea ben personale e individuabile. Giuseppina De Rienzo comprime e incanala una immaginazione lussureggiante, una florescenza che viene repressa a colpi di maglio. Parole spezzate nel verso, squarci su tela. Disposte in fila, in riga, e mosse come sequenza di cinema, arrivano cariche di tutto il peso che esse portano nella storia personale, nei ritmi di vita, nelle pose del quotidiano. Pietra e piuma, sono immagini di lacerazione, confessione, rivolta, vendetta, dall’evocazione del fantasma d’amore:”la tua ombra allo sbarco/ è/ scala/ in pietra/ solo per un momento/ piana” , alla onirica figura materna:” ti indosso/ ogni mattina/ come un cappotto/ e via”, a una presenza animale con bagaglio e profili umani: “stanotte ho baciato un cane”. La materialità scissa, frantumata della versificazione è il possibile/impossibile ricongiungimento con la corporeità, la fisicità delle situazioni: “scrivere/ è certo/ un modo di rinunziare/ al corpo”. Così, perfino la pallida stregònia, dimessa pianta mediterranea, che nella visione poetica si cambia in un violento bluastro, diventa nuova e invalicabile barriera, ultimo confine tra un reale conosciuto e temuto, e un altrove sognato, ma altrettanto portatore di timori.

A mia madre

“Ti indosso ogni mattina

come un cappotto, e via.

Più largo

lungo almeno due taglie

infilo una a una le braccia

nelle tue.

Accetto la tua gonna a pieghe,

il tuo passo forte.

Anche la rabbia.”

 

Recensioni

Francesco De Core – Il Mattino – 16 06 2005

Francesco Durante – Corriere Del Mezzogiorno – 12 06 2005

Davide Morganti – La Repubblica – 09 07 2005

Francesco de Core

La poesia come emozione pura, ritorno alle origini della parola. E qui, nei versi scabri che rotolano gli uni sugli altri, le parole sono dense e fluide insieme, comunque uniche, taglienti come colpo di pennello netto. Giuseppina De Rienzo – nel suo ultimo lavoro poetico, Laggiù la stregònia (Manni editore, pagg. 101 euro 10) – le mette in fila, le lascia in riga, le muove e le plasma come sequenza di cinema, ne adotta tutto il peso che esse portano nella storia personale, nei ritmi fluenti di vita, nelle pose del quotidiano. Parola come lacerazione, urlo e vendetta, pietra e piuma; parola che rimbalza dentro, nelle viscere e nell’anima tra un ricordo materno che muove a sogno e una presenza animale che ha umana corposità. Laggiù la stregònia è dunque percorso, tragitto, esperienza e ferita: ha sangue di rivolta nella confessione che, al di là di ogni lucida passione e ragione, l’autrice ci fa vivere, in presa diretta. Come sussulto, aritmia a occhi chiusi e cuore aperto: «A me spettano pezzi / bocconi / coni d’ombra / zoomate scampoli / aria / vite a squarci». L’esistenza è fatta di salti, ma va presa tutta, trangugiata nel segno della passione e della sofferenza: «Azzardo / inseguire le cose per intero / coglierle piene / bere / d’un fiato il dolore / così ho vissuto (non ho detto amato) / fino all’ultima goccia». Anche i rapporti vibrano di una intensità che la De Rienzo – mai come in questa raccolta (avendo già sperimentato anni fa la forza della poesia in Eri tu il cavallo) – cava, cerca, ripone nelle parole: «Meno male / hai lasciato gli occhi / nell’acqua / a sprazzi / posso vederli la mattina / vapori oltre la scogliera». Gli affetti, i sentimenti sembrano condensati, eppure esposti mai velatamente. Anche l’effetto straniante della natura è specchio delle inquietudini. E irrompe la stregònia, pianta mediterranea, diffusa e spontanea: «Di qua / rosmarino / gallinetta comune / laggiù / acanto spinoso / lavanda selvatica / stregònia». Come se proprio queste piante che sorgono nei posti più impervi potessero in qualche modo restituire sollievo a chi le guarda. La natura rivela e si rivela. E i versi succhiano quella linfa. Napoletana di nascita, ma procidana per adozione e passione, la De Rienzo sembra proprio cucire addosso all’isola – cui ha anche dedicato uno splendido libro fotografico – il senso che le è proprio, la lucida emozione e l’incanto mai domato, trovando il conforto del rifugio ma pure l’integrità di emozioni altrove rapprese, o comunque scolorite. Il libro è anche un viaggio tra corpi veri e artefatti (il manichino non è messo a caso in copertina) e nel fitto reticolo dei ricordi (struggenti sono i versi dedicati alla figura materna, la cui presenza è palpabile persino negli abiti dismessi). E c’è un filo rosso che collega la poesia alla prosa, la stregònia alla scirocca (protagonista dell’ultimo romanzo): la De Rienzo conferma così di saper toccare corde, in profondità, spesso inaccessibili.

(Il Mattino, 16/06/05)

Francesco Durante

Un atto di lacerante superbia: “ricreare il nulla”. E’, del resto, l’atto stesso dello scrivere.
Nelle nuove poesie di Giuseppina De Rienzo lo troviamo applicato alla figura materna.
Le poesie della De Rienzo sono il prodotto di una furia: non basta loro una qualsiasi forma ( se non, talora, quella di qualche misterioso calligramma), non una misura; esse si gettano sulla pagina come un fiotto di vita, un lampo al magnesio che nell’urgenza della sintesi prende le parole e le scompone o le fonde, e insomma si mostrano con una loro forza visionaria:
concreti fantasmi, li si direbbe, a partire da una costante che è quella di annettere un senso e una voce ( di dare vita) proprio alle cose più umili, alle cose- cose, quelle che – sunt lacrimae rerum – meglio possono dirci la malinconica transitorietà del reale.
Di queste poesie per la madre, che formano una delle cinque sezioni del libro, ricorderò alcuni versi da quella che più mi ha convinto e che dice: “ti indosso/ ogni mattina/ come un cappotto e via/ più largo/ lungo/ almeno due taglie/ infilo una a una/ le braccia/ nelle tue/ accetto/ la gonna a pieghe/ il tuo passo forte/ anche la rabbia/ soltanto gli occhi/ restano dietro/ ai miei…”.
Indossare una madre: rendere vivo e palpabile il suo ricordo come una traccia, un’usta, una pista sfuggente che soltanto una figlia può riconoscere senza possibilità di errore.
Ricreare “la cosa più preziosa che ho”, per riscattarla amorevolmente dal nulla.

(Corriere Del Mezzogiorno, 12/06/2005)

La Fame di versi con parole a nudo
Davide Morganti

C’è ingordigia di silenzi nelle poesie di De Rienzo, con parole spellate e gettate sulla pagina

dopo aver attraversato uno spazio che cerca vie di fuga. Immagini e dolori, arroventati da una “pura

inclinazione alla razzia”, istinto primordiale che deriva dalla fame. L’autrice vi fonda una poetica

con cui affrontare la polvere degli incontri e le parti malate della vita, poi i riposi improvvisi:

“mangio al buio in cucina e finalmente capisco mio padre la sua resistenza da cane l’insensata

capacità di aspettare”. Versi che si spezzano come capelli, procedono sfilacciandosi come per

deragliamento, ma con la robustezza delle ossa che reggono il vuoto della pagina e la disperazione di un lento svestirsi alla finestra, nella speranza che qualcuno noti le nudità: “per questo apro

l’armadio e ti faccio guardare per una sola notte”.

( La Repubblica, 09 07 2005)

“Fuoco. Terra. Aria. Acqua” – Terra d’ulivi Edizioni, 2017

 

“Forse l’inferno salva”.

 

“Aria  dissalata 

i mie pensieri di carta travasano fuoco fresco.

Misteriosa bestia rossa alle spalle,

ingorda forse d’amore

o di scrittura

non cambia l’eterno mio stare alla finestra”.

 

Recensioni:

“Poeti del Sud che musicano il pensiero” – Quattro voci dissimili e filosofiche ( De Rienzo, Grutt, Sant’Elia e Tempesta) nella raccolta postmoderna “Fuoco. Terra. Aria. Acqua”. Max De Francesco, Chiaia Magazine Aprile/Maggio 2018

“Un Manifesto per la poesia meridionale” – Portale Sud al via con un volume a più voci: Sant’Elia, De Rienzo, Tempesta, Grutt. Donatella Trotta, Il Mattino, 30 novembre 2017

“FUOCO.TERRA.ARIA.ACQUA Itinerario poetico negli elementi primigeni. Poesia Portale Sud, un progetto in divenire” di Vanina Zaccaria.

 

Da “La Freccia e il cerchio”: Annuale internazionale bilingue ( italiano/ inglese) di filosofia, letteratura, linguaggi.2017.

Il pensiero è una freccia. Il sentimento è un cerchio” ( Marina Cvetàeva)

L’abbaglio di un ritorno

Srotola mille bracci con sussiego

il Sognefjord

duecentoquattro chilometri di anse montagne cascate ghiacciai

Lui

infinito

serpente a squame verdi

con l’intero corpo

allestisce vie per un ritorno

illude occhi di fame

The glare of a return

A thousand arms are unfolded primly

by the Sognefjord,

two hundred and four kilometres of loops, mountains, waterfalls, glaciers.

It

An endless

Green scaled snake

with its whole body

preparing the way for a return

deluding hungering eyes

 

 

 

 

Da “La Polvere e la Luna: I poeti del 23 novembre” di Paolo Saggese, Delta 3 edizioni, 2010.

Fantasmi

Fantasmi velano l’aria
fanno le colline bianche e nere
hirpini
ciondolano dai pilastrimostro dell’autostrada
accozzaglia di anime
abbracci sotto i cavalcavia
appannano il verde degli alberi
rimandano il rosso al verminaio di matrignaterra
utero cieco
gigante analfabeta per nulla educato
inghiotte figli a migliaia
da noi anche lo scempio è nature
fuoco genuino
sciagura creativa
lontana da sofisticati earthquakes
stranieri angeli di altri disastri

hirpini
duri a morire
pendono da lampioni
guastano il giallo il blu il viola
spaesati castagni secchi pali della luce
chi tocca i fili muore
inutile avvertimento
al fresco lacrime tizzoni cenere focolari spenti
visionarie nuvole carnevalate sghignazzi pianti scappàti via dai muri
aperti
fegato da vampiro hirpus
once di insana resurrezione
pietre cemento cielo pioppi disordinati pendìi
troni in processione finti giochi randagi
legnetti per cani scabbiosi
bruma foschìe vialetti geometrici
grigi condomìni tristi treni plastica e alluminio
labirinti con ordinate paure
alcove di gelo e sudore

a grappoli                       fiere essenze

eserciti di apparenti figure
distanti dalla terra
che tradisce
alto sul campanile imbalsamato
mummia nostrana
l’orologio
zittisce
rintocchi di morte
navate mute canne di organo colpe non assolte
umili santi sacrificàti
salvano sacro teatrino
Maria
il Bambino
Giuseppe
l’arcangelo col baldacchino
portàti a spalla
fuga generale al riparo
il container largo senza croce
in cima
suona campane registrate

film a doppia pista
il noir hirpino
in basso strade case piazze deserte
in alto operaisimulacri
ripetono eterna furia
ingannevole catena di montaggio
gesti passi dimore per galline
l’esattezza del dolore

presto
nasceranno violacciocche
già la banda affina crepe frane fossi strapiombi
in fila
tromboni pifferi lucenti piatti
il santo traballa
la stessa paura

hirpini
raduno di fantasmi
calzette maglie velluti alla zuava
steccati di spine
case di latta fradicia
sventolano mutande bianche
credule
bandiere di caparbia speranza